Intervista a Domenico Carpagnano

Domenico Carpagnano in una contaminazione di generi letterari, parte dal giallo per poi soffermarsi su temi sociali molto sentiti.

Domenico Carpagnano avvocato è nato nel 1954 a Barletta, dove ha esercitato al libera professione fino al  2013. Nel 2014 si è trasferito a Perugia, città dove aveva completato i suoi studi universitari, per dedicarsi a tempo pieno alla pittura ed alla scrittura. Dopo ” Per una vita rubata” il suo romanzo d’esordio pubblicato nel Settembre 2016, si ripresenta ai suoi lettori con ” La verità comoda”, un thriller ambientato nel capoluogo umbro.

Noi lo abbiamo intervistato per voi.

Buongiorno Domenico, come e quando nasce il libro “La Verità Comoda?”

“La verità comoda” è il mio secondo thriller. È stato pubblicato nel 2018 dalla Bertoni Editore e, come il primo, è ambientato a Perugia, città che mi ospita da qualche anno. Per quanto riguarda il “come nasce” è presto detto. Quando il lavoro che hai fatto per 35 anni ti ha costretto a scrivere tutti i giorni della settimana, non puoi smettere di farlo solo perché hai tirato i remi in barca. È molto più che un’esigenza! La differenza tra ieri e oggi sta solo nel fatto che prima erano gli altri a dirmi cosa avrei dovuto scrivere, ora, invece, l’argomento lo scelgo io.

Definire il tuo libro un thriller, a mio avviso, è molto riduttivo; in quali generi letterari potremmo inserirlo?

“La verità comoda” è un tentativo — non tocca a me dire se riuscito o meno — di contaminazione di generi.

I protagonisti, con le loro storie — se non fosse che c’è un omicidio e che c’è chi indaga per assicurare il colpevole alla giustizia — avrebbero potuto benissimo essere personaggi di un altro genere letterario.

L’idea iniziale è stata quella di raccontare qualcosa che non fossero solo gli ammazzamenti, le indagini, i colpi di scena e gli investigatori con i loro tic: elementi, questi, che pure sono necessari in un thriller. Ho pensato che sarebbe stato bello raccontare quanto, a volte, il pregiudizio sia in grado di alterare la verità, fino a fare apparire vero ciò che non lo è e come, talvolta, ci si accontenti della verosimiglianza e cioè di qualcosa che somigli alla verità solo perché è coerente con le nostre convinzioni.

Ho voluto puntare il dito contro quelli che esprimono i loro giudizi prima e indipendentemente dai fatti. Contro quelli che cercano di semplificare situazioni complesse, attraverso inaccettabili generalizzazioni, come se sia possibile prendere spunto da un singolo episodio per dettare una regola che possa valere per tutti.

Per carità, non era un saggio sul pregiudizio che volevo scrivere (e non è quello che ho scritto, anche perché non avrei avuto la competenza per farlo), ma volevo mettere in guardia dai pericoli che si corrono quando si pretende di andare alla ricerca della verità con le lenti di chi è prevenuto.

In una recensione (nella quale sono stati comunque espressi giudizi lusinghieri sul romanzo) mi è stato contestato di aver dato «troppo rilievo ad aspetti “socio-politici”, indugiando su argomenti come l’accoglienza, la discriminazione, il razzismo che poco si confanno ad un romanzo giallo.»

Questa critica — pur avendola accettata (perché chi scrive deve sempre prendere atto dei giudizi dei suoi lettori, anche quando non li condivide) — mi ha un po’ sorpreso perché, in realtà, era proprio quello che volevo fare. Non m’interessava scrivere un thriller nel quale il colpevole fosse il solito matto che ammazzava senza una ragione che non fosse dettata dalla sua follia. La violenza è il prodotto dell’uomo e, quindi, delle sue patologie, delle sue necessità, dei suoi pregiudizi, delle sue scelte, delle sue pulsioni, dei suoi vizi e di tanto altro ancora. E quindi, non essendo (quasi) mai fine a stessa, non vedo perché certi temi debbano essere trattati solo nei saggi e nella narrativa che non sia quella di genere.

Parli di tematiche molto significative e delicate; secondo te potrebbe essere adottato nelle scuole superiori come testo educativo e informativo per prevenire e curare alcune piaghe della nostra società?

La vedo veramente dura. In una scuola come quella italiana, in cui si predilige lo studio della storia antica o, comunque, di quella meno recente, a dispetto di quella del novecento, e nella quale i temi scomodi si preferisce non raccontarli perché ritenuti “ideologici” (come se la scelta di studiare fenomeni antichi piuttosto che quelli più vicini a noi non sia essa stessa una scelta ideologica), bisognerebbe trovare dirigenti scolastici e insegnanti coraggiosi perché un libro come “La verità comoda” possa essere adottato. Io mi accontenterei che ne fosse consigliata la lettura, perché i temi trattati (e non parlo del mio punto di vista) possano formare oggetto di una discussione “guidata” e non preconcetta tra docenti e studenti.

“Se non lasci nulla dopo di te sei destinato a morire due volte”. Ci vuoi approfondire questo concetto?

Se uno crede nell’aldilà (qualunque sia la sua religione) non c’è nessun problema: dopo la morte ci sarà un’altra vita, nella quale potrà ritrovare i suoi affetti e questo renderà il suo trapasso più accettabile, perché meno definitivo. Per chi, invece, non è credente, la situazione è un po’ più complicata, dato che — se non lascerà nulla dopo di sé — del suo passaggio su questa terra non rimarrà alcun segno, come se non fosse mai nato. Il peggio che possa capitarci, insomma, è che, dopo morti, nessuno più si ricordi di noi. È per questo che perché si possa sopravvivere alla nostra stessa morte dobbiamo preoccuparci di lasciare qualcosa che consenta a chi rimane di ricordarci.

Nel tuo libro viene sottolineata spesso la “differenza d’età”; per Domenico Carpagnano, questo dato quanto può essere rilevante nella vita di ogni giorno?

Se la differenza di età in una coppia non è l’espressione di una patologia, non ci trovo nulla di strano. Anzi, della differenza di età potranno avvantaggiarsene entrambi. Conosco coppie che vivono questa differenza meravigliosamente. Quelli che mi preoccupano sono i rapporti malati, quelli in cui l’adulto (uomo o donna che sia) si approfitti del minore, sfruttando la sua posizione di supremazia economica, culturale, di prestigio e così via.

“Per paura, per omertà, peggio per proteggere il buon nome avevamo preferito assecondare una verità comoda”. Quante volte siamo stati tutti vittime e carnefici di questa triste realtà! Quale messaggio vorresti che arrivasse al lettore attraverso il tuo scritto?

La convinzione generale è che la verità sia un sostantivo che non necessiti di aggettivi. Se una cosa è vera, è tale e basta. In realtà, non è proprio così.

Gli avvocati, per esempio, distinguono la verità senza aggettivi — quella che, per rafforzarla, chiamano “vera”  (come se ci fosse una verità non vera) — da quella processuale (ciò che è stato accertato in giudizio e che condiziona l’esito del processo): queste sono due verità che non sempre coincidono e non sono neanche le uniche variabili possibili. Per fare un esempio, la verità “comoda” è quella che non fa male, quella che è in linea con le nostre convinzioni e che molto spesso è condizionata non solo dai nostri pregiudizi, ma anche dalle nostre paure. È quella che ci fa chiudere gli occhi e non ci fa vedere le cose più evidenti. È una sorta di corazza che indossiamo per proteggerci dalle verità moleste. È come se, di fronte a una disgrazia, per evitare che il dolore si raddoppi, mettessimo a tacere quella voce interna che ci indica la soluzione più ovvia, per trovarne una che non aggiunga dolore a dolore.

Quante volte abbiamo letto una notizia e non ci siamo preoccupati di verificarne la veridicità e quante altre ci siamo fatti in quattro per dimostrare che si trattava di una fake news? Questo significa che esistono verità comode, che non abbiamo problemi ad accettare perché confermano le nostre opinioni, le nostre paure e i nostri pregiudizi, e verità scomode, quelle che non siamo disposti ad accettare perché li smentiscono.

Così, in perfetta buona fede, va a finire che giudichiamo gli altri non per quello che sono, ma per quello che siamo convinti che essi siano.

Leggendo il tuo libro, mi è venuta in mente la storia di Denise Pipitone, scomparsa a Mazara del Vallo da ormai troppi anni. Anche qui troppa omertà purtroppo! Mi è venuta in mente anche la storia di Sara Scazzi e dello zio Michele Misseri, una verità sconvolgente! Ma tu, per fortuna, ci parli anche di una giustizia che esiste; cosa vuoi dirci in merito?

Quando ho scritto “La verità comoda” non pensavo a nessuna di queste tragedie in particolare, ma a tutte, in generale, anche a quelle di cui non si sono occupati i giornali.

Le vicende a cui hai fatto riferimento sono la migliore conferma che la realtà è molto più cruda (nel bene e nel male) delle stesse fiction. Oggi, chi ha voglia di scrivere non ha bisogno di inventarsi proprio nulla: gli basta aprire un giornale per avere lo spunto per la storia da raccontare. Quanto alla giustizia, purtroppo, posso solo aggiungere che sono molti di più i casi irrisolti che non quelli risolti e che le verità processuali, purtroppo, non sempre coincidono con quelle vere, specie quando ci si trova di fronte ai comportamenti omertosi di chi sa e non parla, preoccupato di quali possano essere le conseguenze nel caso in cui dovessero emergere verità scomode. Molto spesso è la fortuna ad aiutare gli investigatori, come ne “La verità comoda”, in cui senza un pizzico di quella fortuna, non si sarebbe riusciti a scoprire neanche l’identità della vittima.

Continuando la lettura del tuo libro, ho anche respirato molto romanticismo, tra i borghi e le vie di Perugia. Mi sono trovata lì tra la Biblioteca Augusta, Porta Sole, Mura Medievali del Borgo Sant’Antonio e Sant’Angelo; qual è il tuo rapporto con la tua città?

Per chi mi conosce, anche solo sui social, sa bene quanto io ami Perugia. Non c’è giorno in cui non pubblichi qualche sua foto. È stata la città in cui ho completato i miei studi universitari e che mi ha accolto da pensionato. È la città in cui faccio quello che mi piace fare (scrivere e dipingere) e che, con le sue stradine medievali, è perfetta per l’ambientazione dei miei thriller.

Quali sono i momenti più emozionanti che “La Verità Comoda” è riuscita a regalarti?

A parte le presentazioni, nelle quali si ha il privilegio di avere un contatto diretto con i lettori, sono innanzitutto le recensioni quelle che ti spingono a continuare a scrivere. Sapere cosa pensa la gente di quello che hai scritto, magari anche con critiche costruttive, è la benzina senza la quale non potresti continuare a farlo. È per questo che invito con una certa frequenza i lettori a pubblicare le loro recensioni.

E poi non ha prezzo il piacere di trasformare in amicizie reali dei semplici contatti Fb. In questi giorni ho avuto il piacere di essere presentato a Roma e a Milano da bravissimi scrittori che ho conosciuto su Fb e di vedere partecipare alla presentazione del libro degli amici “virtuali”, che, per raggiungermi e conoscermi, si sono spostati dalle loro città, lontane centinaia e centinaia di chilometri dal luogo in cui presentavo il romanzo. Insomma, parafrasando una nota pubblicità, direi “Cosa puoi volere più dalla vita?”

Ci sarà un sequel? Vuoi parlarci dei tuoi progetti futuri?

C’è già un sequel, ma penso che ci voglia un po’ prima che venga pubblicato. Per ora è in lettura, poi dovrà essere editato e poi chissà… Quello che posso anticipare è che ci sono gli stessi investigatori (il commissario Anselmi e il sovrintendente Ricci), la vicenda si sviluppa sempre a Perugia e ci sarà una new entry: Mollica, il micio a cui ho dedicato “La verità comoda”, perché è l’unico per il quale non ho difetti.

Ti rinnovo i miei complimenti e ti saluto dicendoti che, se vuoi aggiungere qualcos’altro, siamo qui  tua disposizione.

Sono io che ringrazio te e il blog per l’opportunità che mi avete dato, prima con la tua bellissima recensione e ora con questa intervista. Grazie di nuovo!

Alessandra Di Girolamo

La verità comoda la recensione

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