Intervista a Bruno Brundisini

Il chiodo nel pupazzo di Bruno Brundisini 

Intervista a cura di Alessandra Di Girolamo

Bruno Brundisini è nato a Taranto, ha lavorato come medico  presso l’ospedale di San Giovanni Rotondo e poi di Subiaco. Due realtà  per certi versi simili perché inserite in un contesto mistico. Attualmente vive e lavora a Tivoli, il chiodo nel pupazzo è il suo primo romanzo,

Noi abbiamo parlato con lui e ci ha rilasciato questa interessante intervista.

Il chiodo nel pupazzo la recensione

Bruno Brundisini

Ciao Bruno, com’é nata l’idea di scrivere il “chiodo nel pupazzo”?

Ho sempre avuto la passione per la scrittura. Ho scritto saggi, biografie, articoli scientifici e divulgativi. Alla fine, tre anni orsono, ho deciso di “buttarmi” sulla narrativa. Sono sempre stato affascinato dai thriller, dal mistero, dalle trame complesse,  dagli ambienti delle comunità (ospedali, caserme, monasteri, carceri ecc.), dalle personalità contraddittorie. All’inizio quasi non ci credevo! Riuscire a raccontare degli avvenimenti, incastrandoli l’uno nell’altro, come parti di un puzzle, costruire dei personaggi e mantenerli coerenti fino all’ultimo, pur nello sviluppo della narrazione. Tutto ciò mi sembrava un’impresa titanica!

Ma comunque mi affascinava l’idea di sorprendere il lettore, dargli un finale per nulla scontato e quindi non deluderlo, non tradirlo.

 

Qual è il tuo rapporto con la religione ?

Penso, a mio modesto avviso, che la religione cristiana può rappresentare una grandissima risorsa per l’umanità, se si libera da un lato a livello spirituale dalle varie superstizioni e dall’altro, a livello materiale, dagli interessi prettamente terreni. E’ necessario pensare una teologia che vada più sui temi del sociale. In tale direzione vedo il grande sforzo che sta facendo papa Francesco.

Diverso è il rapporto che ho con Dio, dalla cui esistenza penso non si possa prescindere,ma qui il discorso sarebbe molto complicato. In tal senso la religione, modellata sull’uomo, si colloca tra Dio e l’umanità.

 

Il male e il bene sono i temi sui quali gira tutto il libro, vuoi approfondire l’argomento?

Nello scrivere il mio romanzo mi sono in un certo senso ispirato al male, sia come presenza, sia come operatività. Nel libro non ci sono descrizioni di violenza gratuita, in nessuna forma, sebbene il male conduca, alla fine, proprio alla violenza.

Parto dalla citazione di una delle più profonde studiose dell’argomento, Hannah Arendt. “Il male non può mai essere radicale, ma solo estremo e non possiede né una profondità, né una dimensione demoniaca. (…) Esso è una sfida al pensiero, perché il pensiero vuole andare in fondo, tenta di andare alla radice delle cose, e nel momento che si interessa al male viene frustrato, perché non c’è nulla. Questa è la banalità.” Così si esprimeva la Arendt, con riferimento all’Olocausto, inteso come metafora del male assoluto e quindi unità di misura e di confronto di tutte le altre forme, per così dire minori, di male collettivo o individuale. Senza giungere a livelli così catastrofici, il male è presente nella quotidianità di ciascuno di noi e spesso assume la regia di determinati comportamenti della società.

E’ il male che, anche se costruito a tavolino, nasce dal non pensiero, ed è privo della proprietà transitiva del bene che invece giova agli altri. Il male, altresì, rimane confinato nell’ambito meschino di se stesso e nel proprio egoismo, perchè esso agisce soltanto per il proprio tornaconto, come fattore di distruzione dell’altro o di disorganizzazione della società. Quindi nasce dal vuoto sprigionando poi una forte energia. Paradigmatica è nel romanzo la figura di Gilberto. In tal senso si esprime egregiamente il teologo Vito Mancuso che attribuisce al male la suggestione della potenza, mentre il bene non attrae perché nell’immaginario collettivo esprime debolezza

Il male non è solo azione, ma anche potenzialità, minaccia, rappresentando un codice identificativo di uno status, di una organizzazione, di alcune configurazioni del potere e riceve pertanto un consenso sociale. In alcuni casi estremi esso arriva a infiltrarsi anche in taluni rappresentanti delle istituzioni a più alta valenza morale, come descritto nel romanzo.

Le religioni hanno personificato il male nella figura del demonio per esorcizzarlo da un punto di vista etico, prima ancora che materiale.

I protagonisti: Ernesto, Ludovica, Gilberto ed Anna sono frutto della tua fantasia o qualcuno di loro esiste davvero?

Tutti i personaggi del mio romanzo sono inventati. Di proposito mi sono astenuto dal collocare geograficamente la narrazione. Ma ogni scrittore sa che i personaggi, pur non avendo riferimenti a precise figure reali, sono spesso un collage di esperienze del passato, sedimentate nell’inconscio. Francamente non saprei individuare riferimenti a figure concrete nei quattro personaggi principali. Ernesto è il pensiero razionale, di un razionalismo hegeliano direi ottimista nella sua concezione oggettiva della realtà. Ma è anche l’uomo che ama, che è geloso, istintivo. In Ludovica ho voluto rappresentare la bellezza della donna, dentro e fuori, come si suol dire. In Gilberto ho spinto all’estremo la banalità del male. Assai più complesso è il discorso su Anna.Stranamente invece riferimenti più concreti si hanno con altri personaggi, per così dire minori nell’economia della trama, tra i quali fra Giacinto,fra’ Michele e Maria Assunta. Fra’ Giacinto l’ho “sentito” in maniera particolare dentro di me. L’aver io vissuto e lavorato per molti anni in centri ad alta ispirazione mistica, quali San Giovanni Rotondo e Subiaco, ha certamente influito nella rappresentazione di luoghi e nella costruzione di alcuni personaggi. Fra’ Giacinto rappresenta il santo incompreso dalla Chiesa, una figura travagliata e nello stesso tempo di una semplicità disarmante. Egli è il cristiano puro, animato da un francescanesimo che va al di là della religione stessa e diventa messaggio universale. In una visione immanente è l’uomo che “può perché crede di potere”, e in fin dei conti, è l’uomo che può perché crede. Fra’ Michele è un personaggio costruito su una figura reale, ma con le dovute modifiche e mascheramenti.

Maria Assunta è una figura parte reale, definita nella mia mente ancor prima che nella trama del romanzo. Ho  pensato a lungo a lei. Sono rimasto colpito da come il personaggio si componeva nella mia ideazione, da questa donna, ex prostituta, moglie di un trafficante di droga, ma con un animo generoso che commuove,fedele alla malavita nel cui mondo è nata e cresciuta, ma sinceramente religiosa. Entra in scena con i suoi “due occhi colmi di rassegnazione, ma fermi nel portare a termine il compito affidatole”. E’ un personaggio che avrei voluto sfruttare di più, ma mi mancava il materiale narrativo per darle più spazio.

Un libro che incuriosisce parecchio, si parla anche di esorcismi e in alcuni punti si sfiora l’horror, come ha reagito il tuo pubblico di fronte a tematiche così forti?

Direi bene. Il libro si rivolge ad un pubblico smaliziato. Ho cercato comunque di non dare un taglio particolarmente polemico in determinati passi della narrazione, per non ferire la sensibilità di alcuni lettori. La scena dell’esorcismo è raccontata con un sottile umorismo ed ironia. L’horror, disseminato qua e là, è a mio avviso abbastanza soft.

Il convento è il luogo sacro che raccoglie innumerevoli misteri; hai effettuato degli studi religiosi per approfondire certe dottrine?

Sì. Mi sono documentato sulla pratica dell’esorcismo, per cui tutto ciò che viene descritto, compreso il “parlare in lingue”,corrisponde esattamente a quanto riferito nei testi. Aggiungo che molte fonti a cui ho attinto, di autori che credono in questa pratica, riferiscono episodi,a mio avviso, ancora più strani relativamente alla presenza del diavolo.

Il denaro colpevole di cambiare individui e società; vorresti dire qualcosa a riguardo?

Personalmente ritengo che il possesso del denaro debba derivare unicamente dal lavoro ed essere proporzionato ad esso. Tutte le altre forme di provenienza, compreso il gioco legalmente riconosciuto, falsificano i rapporti di produzione e la natura stessa del denaro, incidendo negativamente sul valore delle risorse.

Vi sono molti dettagli che abbracciano la medicina; cos’è per te il tuo lavoro?

Ho sempre amato la medicina, nella quale ho visto il coniugarsi della conoscenza scientifica con la missione e l’amore per il prossimo. Ho lavorato per anni in un ospedale che offre molte risorse nella ricerca permettendomi di presentare lavori scientifici a livello internazionale, e nello stesso tempo mi ha insegnato a riconoscere il volto di Cristo nel paziente che giace nudo in fondo al letto di una corsia.

Bruno dirigente medico e Bruno scrittore dove finisce l’uno e comincia l’altro?

Sono un medico ospedaliero e la mia attività in ospedale mi impegna per quasi tutta la giornata, ma mi offre anche tantissimi spunti di riflessione sul dolore e sulla sofferenza. Potrei dirti semplicisticamente che il medico cede il posto allo scrittore quando il cervello razionale (l’emisfero destro quello della creatività e del pensiero positivo) prevale sul sinistro, quello dell’elaborazione e della critica. Vi sono momenti in cui avverto chiaramente questo passaggio. Ma vi sono altri momenti in cui le due figure convivono in perfetto accordo, perché anche nell’uso della scienza non puoi fare a meno della creatività. Sicuramente le due figure s’incontrano nella sofferenza della morte in corsia, quando, pur nella necessaria distanza emotiva, non puoi mai prescindere da una partecipazione al dolore e al mistero. La conoscenza della medicina mi ha permesso di inserire negli ingranaggi della trama elementi fondamentali.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Ernesto  appassionerà ancora le nostre letture?

Adesso ho incominciato a scrivere il primo capitolo di un romanzo, sempre dello stesso genere, ma con altri personaggi. E’ la storia di una ragazza con problemi psichiatrici che viene accusata di un orrendo delitto, dell’amore della sua mamma e della malvagità del mondo, anche istituzionale, che ruota intorno a loro.

Ma ho anche l’idea di tornare a far rivivere, in un altro scritto, alcuni dei personaggi de Il chiodo nel pupazzo, soprattutto Ernesto. Alla fine del romanzo, quando ho consegnato il manoscritto all’editore, ho provato un senso di vuoto, una sottile malinconia. Dicono che è normale. Hai investito tanti mesi a costruire la trama, a renderla congruente, a dare un’anima ai tuoi personaggi e, alla fine, senti di non avere più niente da dire, almeno per il momento. Ti sei innamorato dei tuoi personaggi, (di tutti, a prescindere dai valori che hai conferito a ciascuno di essi) ed ora li devi lasciare. Essi sono ormai autonomi e vivono confinati nella storia che hai dato loro, senza più possibilità di nuove espressioni.  Allora capisci perché molti autori, soprattutto di gialli, scrivano una serie di romanzi con gli stessi personaggi.

Vuoi aggiungere qualcos’altro  alla nostra intervista?

Mi hai fatto delle domande interessantissime, permettendomi così di mettere a fuoco alcuni punti fondamentali del romanzo e di questo te ne sono davvero molto grato.

 

 

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